Sei una nullità
Sei una nullità
30 Marzo 2017

Sei una nullità

L’altro giorno ho iniziato a guardare una serie di documentari di Netflix che si chiama Abstract. Ogni puntata è dedicata alla storia di un grafico, un illustratore, un architetto, un interior designer e così via. Come sempre, è fatto in modo pazzesco e assomiglia, come impostazione e propositi “inspirational”, a Chef’s Table (un’altra serie di docu, sugli chef più bravi e innovativi del mondo, che ti esorto a vedere anche se non ami la cucina).

MoMA mia!

Insomma, arrivo alla puntata su Paula Scher (se non la conosci, guarda qui le due o tre cosette che ha fatto nella vita). Lei fa la graphic designer ed è specializzata in tutto quello che ruota intorno alla tipografia e ai font. Ha realizzato la cover di Boston (hai presente More than a feeling? È ottima da cantare sotto la doccia!), il logo di Tiffany and co, si è occupata di ripensare l’identità visiva del MoMA, ha creato il logo di Windows 8. Una bravina, diciamo.

Ti ricevo forte e chiaro

Ecco, ed è in quel momento, mentre mi scorrono davanti le immagini di New York, la città che più amo al mondo, mentre questa donna pazzesca, matta e sofisticata insieme, parla di come per lei i font siano fondamentali, di come affronta il pitch a un cliente, di come dipinge i suoi quadri (perché, sì, ovviamente è un’artista pazzesca), di come gira per il suo ufficio fatto tutto a scale e parla con questi grafici che hanno sicuro 10 anni meno di me ma sono già lì, ecco che io mi sento proprio una nullità. Una voce mi dice, forte e chiara: Marianna, sei una nullità.

Nemmeno le virgole

Cioè, tutto bello, fico sapere che nel mondo c’è gente geniale, fantastico prendere ispirazione dai grandissimi, ok imparare dal metodo di chi è meglio di te. Però, anche, cazzo, che senso di miseria dentro. È come un pugno fortissimo in faccia: io non sarò mai così. Ma manco se da oggi fino alla morte farò tutto benissimo, anche ponendo che non sbaglierò mai più nemmeno di una virgola.

Una lunghissima serie di domande

Sono nata nel posto sbagliato? Negli anni sbagliati? Non mi sono messa in gioco prima e meglio? Non ho talento? Sono troppo vecchia? Non ho i soldi per investire di più? Non ho la cultura? A quest’età avrei dovuto fare di più? Non ho avuto culo? Domande che sorgono spontanee, ma anche molto inutili.

È così e basta. Ma fa malissimo. Son proprio stata male, anche se so che sembra patetico. Io lo so che tra 40 anni nessuno farà un documentario sulla mia straordinaria vita di editore digitale e, per quanto sia di bassa lega avere questi sentimenti, questa cosa mi sta proprio sulle balle.

Certo, è assurdo anche solo mettersi in competizione con mostri del genere. Sarebbe come voler correre i 100 metri contro Bolt. Ovvio che verrei asfaltata subito.

Mi sto quindi dando dei modelli di riferimento troppo elevati? Sarebbe meglio trovare i propri miti sotto casa, invece che al 45° piano di un grattacielo di New York?

Sei un mito (tappetini nuovi, Arbre Magique)

D’altronde i miti sono dei fichi proprio perché sono miti, vivono sulle nuvole, lanciano fulmini, sono simili agli dei e c’hanno i superpoteri. Certo, è bellissimo trovare la poesia anche nel netturbino, ma siamo onesti: Paula Scher è meglio.

Tirando le somme: sarà troppo il confronto con lei (e altri tipo lei)? Certo, che è troppo. Perché la verità fa male (lo so) e sentirla non è mai piacevole. Ma alla fine lo so – è come se avessi una consapevolezza cristallina su questo fatto – che quelle vette non potrò mai raggiungerle. È modestia, è il tipico understatement torinese, è oggettività, è scendere a patti con la vita? O, semplicemente, è davvero così e non c’è niente di male?

Freud, amico mio

Non lo so, sto elaborando la cosa qui con te (scusami, se ti uso come psicoterapeuta!) e non ho delle risposte precise a questa sfilza lunghissima di domande. Quello che so per certo è che, oggi, se mi metto in confronto con storie professionali del genere, ho due sentimenti contrastanti:

  1. mi sento inadeguata;
  2. provo un forte senso di rivalsa che mi spinge a darmi da fare.

Good enough is good enough?

Insomma, il confronto con miti del genere potrebbe schiacciarti come una noce. Grazie al cielo a me non viene da mettermi a piangere sotto al piumone, perché ho capito che, anche dai sentimenti più aspri che ti capita di provare nella tua vita lavorativa, devi tirarne fuori della buona limonata. Quindi, ancora una volta, ho voglia di dimostrare che anche io posso fare bene. Magari non così bene da meritarmi un docu su Netflix, ma abbastanza bene. Abbastanza bene, per una vita di lavoro, può andare? Cara Paula Scher non ti temo. Farò il mio, come posso, meglio che posso. Ti stiamo, che è il mio modo per dirti che ti stimo + ti amo.

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